Otto anni sprecati: ci resta poco tempo per risollevare le sorti della città

 

Guardare al futuro con fiducia e voglia di costruire una società a misura.

Alla fine dell’anno scolastico 2001/2, il teatro Comunale di Monfalcone ospitò uno spettacolo presentato dalle maestre e dai bambini della scuola elementare Cuzzi. Tra canti, recite e discorsi mi colpì il coro finale in cui tutti i bambini assieme, già allora di origini diverse, intonarono convinti “Viva la Roca” tra l’entusiasmo del pubblico.

Allora ho provato un senso di ammirazione per quelle maestre che, con pazienza ma anche tanto amore per la città, aiutavano i nostri figli a crescere in un ambiente creativo, multietnico e al tempo stesso familiare.

Per anni, questo lavoro silenzioso, umile e ben strutturato, ha cercato di sviluppare la condivisione e l’elaborazione delle nostre tradizioni con chi veniva da fuori. Le percentuali di forestieri erano molto inferiori ai livelli attuali, per cui gli strumenti necessari per questi percorsi erano molto meno sofisticati di quanto richiedano i tempi attuali.

Per contro, complici sicuramente le azioni disumane dell’estremismo islamico, catalizzate da una narrazione distorta e talvolta falsa della realtà (la vicenda dei carrozzini che il Comune avrebbe regalato ai bengalesi, per citarne una), la pressione demografica che si cominciava a percepire con la natalità di noi bisiachi sempre più superata da quella degli oriundi, la scarsa conoscenza delle loro tradizioni e culture, in pochi anni, hanno interrotto quel seppur timido percorso di convivenza e crescita armonica e la paura dello straniero ha preso il sopravvento sulla voglia di costruire in gran parte della popolazione cosiddetta autoctona.

Un approccio evolutivo nell’integrazione dei nuovi arrivati richiede tempi lunghi, sforzi comunicativi ed educativi ingenti e una dose di pazienza e maturità della popolazione che uno schematico approccio autoritario evita e ritiene superflui. In tanti hanno perciò creduto che il metodo del battere i pugni sul tavolo, del pretendere e forzare comportamenti esteriori virtuosi, fosse la soluzione giusta ed a portata di mano. Con sempre maggior spregiudicatezza si è giunti all’applicazione di azioni sempre più contro una parte della città, ottenendo un risultato prevedibile e grave: la città adesso si è incattivita e divisa come non mai e le contrapposizioni non lasciano presagire niente di buono.

Le donne mussulmane velate integralmente sono molto più visibili, i giovani di seconda generazione non riescono ad entrare nelle nostre agenzie educative e vivono una situazione di pericolosa emarginazione, le contestazioni dei loro costumi da parte di una parte della popolazione autoctona viene stigmatizzata e contestata in modi sgarbati e reazionari.

Sembra quasi che non ci sia una via d’uscita, ma sono convinto che, parafrasando Papa Giovanni Paolo secondo, non dobbiamo aver paura di mettercela tutta e di lavorare incessantemente per aprirci agli altri, convinti che il messaggio cristiano, che in tanti etichettano come parte della nostra cultura, sia un messaggio avvincente, forte e che può essere compreso e condiviso anche da chi ha una visione diversa del mondo e della fede.

Segnali di positività ci sono, vanno ringraziate e valorizzate le insegnanti volontarie dell’A.M.I. che insegnano la nostra lingua alle donne bengalesi residenti in città, vero e tangibile segnale di volontà a superare il muro che purtroppo in sette anni di governo della città l’attuale Amministrazione ha fortemente contribuito a creare.

Lasciando da parte i fiorellini, le telecamere, i recinti, le ossessive manifestazioni e gli spettacoli frenetici e incalzanti, per vivere bene in questa città deve essere costruito un ambiente sociale positivo, economicamente solido e socialmente inclusivo.

E’ evidente come una grande responsabilità della presenza del 30% di stranieri in città sia dovuta al modello produttivo adottato da Fincantieri. Ecco quindi che, oltre alla società civile della città, che si sta mobilitando per risolvere i problemi di convivenza con gli strumenti a sua disposizione, è l’Amministrazione Comunale ad essere chiamata, con la Regione, a spingere sul Governo, principale azionista di Fincantieri, a ripensare e risolvere coerentemente l’impatto sociale della grande fabbrica, sostenendo le conseguenti azioni e permettendo a Monfalcone di diventare un modello per il resto del Paese.

Sarebbe così bello, finalmente, essere citati sulla stampa nazionale non per i divieti ai vestiti al mare, per le birre calde nei negozi etnici o per il bando agli abiti da lavoro per strada, ma per aver compreso e risolto il problema della convivenza tra culture e religioni diverse. Diamoci da fare, allora.

 

Enrico Altran

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Lotte operaie e conflitti fra operai nella città dei cantieri

 

   di Marco Barone

Monfalcone si è appiattita nel tempo in quella retorica che la vuole come città dei cantieri, la cui storia risale ai primi del ’900 con tutte le vicissitudini che hanno connotato l’epopea del Cantiere navale triestino, poi Cantieri Riuniti dell’Adriatico, poi Italcantieri – Cantieri Navali Italiani, oggi Fincantieri.

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