Quando il populismo diventa “politica on demand”

 

Il populismo è diventato una forza davvero potente nella politica italiana.

I movimenti populisti riescono a parlare direttamente alle paure e ai bisogni dei cittadini attraverso promesse semplici e radicali.

Lo fanno proponendo una visione dicotomica della società, evocando un senso di antagonismo tra “il popolo puro” e le élite corrotte o i nemici esterni. Promettono di restituire il potere al popolo e soprattutto di rappresentare la volontà del popolo contro gli interessi e le politiche dei gruppi d’élite come i burocrati, i tecnocrati, la finanza internazionale, le istituzioni sovranazionali, eccetera, evocando spesso nemici esterni, come ad esempio gli immigrati, per cementare il proprio elettorato.

I populisti offrono soluzioni semplicistiche a problemi complessi, spesso ignorando l’equilibrio delicato tra i diversi interessi e valori della società democratica.

Fin qui, direte voi, tutta roba arcinota.

Ma proviamo a vedere come questa dinamica si declini ai vari livelli della politica nazionale e locale.

 

Per i politici nazionali e regionali, le cose vanno abbastanza bene.

I proclami trovano platee ampie e la folla, si sa, ha un comportamento differente dal singolo cittadino. Insomma, promettere le più inaudite sciocchezze, fomentare rancori e insofferenze, additare generici nemici è abbastanza facile se si parla alle masse.

Cosa succede però se si scende di livello? Cosa accade se anziché proclamare in piazza del Popolo a Roma si approda al singolo individuo nella periferia di una cittadina qualsiasi?

Ci ricordiamo tutti l’eroico Capitano che al citofono chiedeva “Scusi, lei spaccia?”.

Come dimenticare una porcheria di cotanta portata… eppure il 30% dell’elettorato italico gioiva così tanto da mandare il sopracitato Capitano dritto dritto fino al Papeete, dove tra un mojito e un bikini (sì, in quel caso era proprio un bikini, e non un burkini…), si arrivava all’invocazione dei “pieni poteri”.

L’apoteosi del populismo, il coronamento del nulla vestito di niente fatto politica. Gesto plateale, direte voi, che ha portato il consenso nazionale (e cioè esattamente quello che era lo scopo) ma non certo quello degli abitanti del quartiere…

Eh sì, perché l’elettorato locale non è composto dalle famose comari del “paesino di Sant’Ilario”, che “non brillano certo in iniziativa”; tutt’altro!

A livello locale, passata la sbornia delle elezioni, la folla perde le sue caratteristiche di pubblico da comizio e diventa una moltitudine di singoli individui, ciascuno coi suoi problemi e desideri…

E il buon amministratore deve accontentare il suo elettorato, si sa… ma non tutte le richieste dei cittadini, sia ben chiaro, solo quelle dei fedelissimi; gli altri, siano anche in quasi 790 (sì, settecentonovanta) a chiedere una cosa di buon senso, non contano…

E così ecco fioccare le richieste più disparate degli “amici”: “Sindaco, mi poti l’albero di via della Stazione?”; “Assessore, il marciapiede ha le buche”; “I ragazzi fanno troppa confusione”; “C’è troppa puzza in Corso”; “I palloni arrivano nel mio giardino”; “Vicesindaco, metti un cassonetto vicino a casa mia”; “Le macchine corrono a 50 all’ora”; “L’autobus ferma troppo lontano”; “La mia barca, con la bassa marea, tocca sul fondo”; “Voglio il capannone più alto”; “Mettimi i parcheggi per residenti davanti all’ingresso”; “Voglio andare a Grado in nave”; “Basta immigrati nel giardinetto sotto casa” … insomma, uno stillicidio! Alla fine, gli elettori plaudenti, ma anche richiedenti, diventano davvero troppi, come fossero i clienti “di un consorzio alimentare” … e l’impavido eletto non ce la fa più!

Certo, “si sa che la gente dà buoni consigli”, e sorvoliamo sul “cattivo esempio”, ma l’eccesso di richieste ubriaca anche il più agile degli amministratori che, snervato dallo stress, non può che rifugiarsi al largo di una immaginaria (…) isola caraibica lasciando un bel tema populista alla folla affamata di argomenti… Ecco, per esempio: gli stranieri che ci portano via il lavoro (quello che gli oriundi non vogliono fare), consumano il nostro welfare (che probabilmente “le comari del paesino” non sanno cosa sia) e soprattutto compromettono la nostra identità turistica che improvvisamente ci fa sentire tutti smisuratamente marino-giuliani… insomma, “quei de Marina Julia”.

Dite che sia una storia già sentita? E invece no: è un bingo!

Il popolo parla, commenta e, come fosse il cane del mitico Pavlov, ancora una volta sbava digrignando i denti.

Missione compiuta, per un po’ stiamo tranquilli.

Ancora una volta è tutto rimandato più in là, che con la bella stagione abbiamo altri pensieri.

Davide Strukelj

 

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