La storia è una cosa seria, però come ben sappiamo nel nostro Territorio si presta spesso a diventare l’arma perfetta di distrazione politica quando certe politiche o condotte non producono gli effetti desiderati.
La storia ritorna, con i suoi effetti collaterali, i soliti nastri rotti che non produrranno alcun arricchimento e processo di verità, ma solo benzina sul fuoco dell’ideologia che deve continuare ad esistere in una sola direzione. Insomma, siamo alle solite e la noia trionfa.
Povera storia. Ma il solito nastro rotto continua a girare a vuoto. Una sinfonia stonata, le cui note si espandono oltrepassando la linea sottile del confine tra chi è meritevole di essere considerato italiano, bisiaco, monfalconese, o metteteci tutto quello che volete, e chi invece, questo merito, questo titolo, no, non è degno di averlo. La mia città, la mia piazza, il mio Paese, il mio mondo, potrebbero essere i titoli di questo nastro rotto. Noi, voi, loro, i sottotitoli.
E allora, diciamolo pure, chi sono i monfalconesi? Una città che ha visto la sua fisionomia e identità modellarsi nel corso della sua storia recente, dai “cabibi”, provenienti dalla Puglia alla Campania, dalla Sicilia alla Calabria, alla gente dell’Est, dai “bangla” ai vietnamiti e si può continuare con le centinaia di nazionalità che vivono nell’(ex) Mandamento monfalconese. Ex semplicemente perché oramai ognuno pensa per sé.
Chi decide chi è monfalconese? Chi è il monfalconese perfetto? Doc? Che può avere stampato sulla propria fronte questo nobilissimo titolo? Chi decide cosa possa determinare l’essere monfalconese? La città è di chi la vive, la città è di chi ogni giorno si alza la mattina per andare a lavorare, a sudare per vivere o sopravvivere, o affrontare semplicemente, a modo suo, la propria quotidianità dentro le sue “mura” medievali. Una città che esteticamente si rifarà pure il lifting, ma per quanto possa puntare a quella bellezza, del tutto opinabile, che dovrebbe trasformare Monfalcone da brutto anatroccolo di noialtri al principato del nordest che non c’è, sarà semplicemente un contenitore a senso unico, destinata a schiantarsi contro il muro dell’autoreferenzialità se negherà l’esistenza di chi non rientra nei propri strepitosi standard.
C’è da riflettere quando dagli ultimi arriva il messaggio “noi siamo tutti cittadini di Monfalcone”, perché alla fine “gli ultimi saranno i primi”. A prescindere dal proprio credo, pensiero, colore politico, dalla questione moschea sì, moschea no, che qui appassiona poco o nulla, ogni individuo merita di essere riconosciuto, tutelato, di non essere discriminato, in un contesto sociale dove spesso la burocrazia diviene lo strumento eccellente per limitare o negare l’altrui esistenza, ed in questo caso sono proprio gli ultimi a voler difendere la Costituzione conquistata ad un prezzo durissimo nel Paese dopo la dittatura del ventennio che ha mandato l’Italia in macerie.
Se stanno bene gli ultimi, staranno bene anche i primi. Da quelle macerie gli ultimi hanno ricostruito il Paese e a Monfalcone ricostruiranno una diversa società senza più quelle divisioni volute dagli ultras dei presepi e da chi è interessato solo alla moschea e a nient’altro, quando di problemi seri per protestare ve ne sono a bizzeffe, dall’emarginazione delle donne ai problemi con la lingua, dai diritti sul lavoro alle classi “ghetto” nelle scuole.
Il tempo delle divisioni è giunto alla sua fine e una nuova storia, questa sì, solo sulla via maestra della laicità, che è l’unica che può tenere insieme le diverse sensibilità di qualsiasi contenitore, può iniziare ad essere scritta per Monfalcone e la rinascita del mandamento, e forse, a dirla tutta, si è già iniziato a scriverla…
Marco Barone