La laicità nella pubblica amministrazione

 

Sembra paradossale dover trattare questo tema, a Monfalcone, alle soglie dell’anno 2024, ma da quanto si ricava dai recenti accadimenti e leggendo alcune uscite pubbliche di chi ci amministra, pare proprio necessario fissare un punto.

In un mondo, il nostro, caratterizzato da una crescente diversità culturale e religiosa, il concetto di laicità nella pubblica amministrazione assume un’importanza fondamentale. La laicità, ovvero la separazione tra Stato e Chiese o religioni, è una pietra miliare delle società democratiche moderne, essenziale per garantire la convivenza pacifica e il rispetto dei diritti di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro convinzioni personali.

La storia della laicità è intrinsecamente legata al processo di modernizzazione e democratizzazione degli Stati. Dalla Rivoluzione francese, dove si affermò il principio di libertà di religione come diritto inalienabile, alla Costituzione degli Stati Uniti, dove il primo emendamento decreta la divisione tra Stato e Chiesa, e fino alla Costituzione italiana, che all’articolo 7 stabilisce il principio di separazione dello Stato rispetto alla Chiesa cattolica, il processo di secolarizzazione ha comportato la netta indipendenza tra la sfera politica e la sfera religiosa sancendo (anche) la fine del cosiddetto giurisdizionalismo che aveva dominato gli affari pubblici secondo il famoso principio “cuius regio, eius et religio”, ovvero “chi comanda decide anche sulle religioni”.

Ma perché la laicità è così importante nella pubblica amministrazione?

Innanzitutto, perché essa assicura che le decisioni politiche e amministrative siano prese nell’interesse comune, libere da qualsiasi influenza religiosa. Questo è essenziale per garantire che tutti i cittadini siano trattati equamente, indipendentemente dalla loro fede o mancanza di essa.

Inoltre, la laicità favorisce l’integrazione sociale e il dialogo interculturale. In una società pluralista, dove convivono persone di diverse fedi e convinzioni, la laicità permette di trovare un terreno comune basato sul rispetto reciproco e sulla comprensione, poiché “la laicità è il fondamento su cui costruire un dialogo tra le diverse visioni del mondo” (Jürgen Habermas).

Da ultimo, ma non certo per importanza, la laicità protegge la libertà di religione e di coscienza di ogni individuo. In un contesto laico, nessuno è obbligato a seguire le prescrizioni di una particolare fede, e tutti hanno il diritto di praticare la propria religione o di non praticarne alcuna.

Venendo alla nostra città, e soprattutto considerata la composizione sociale, etnica e religiosa di Monfalcone, è evidente come l’amministrazione comunale, nel suo impegno verso la laicità e il rispetto delle diverse fedi religiose, dovrebbe muovere su un terreno che è non solo politico e amministrativo, ma anche secondo un profilo profondamente etico.

In altre parole, non è il solo agire amministrativo che dovrebbe essere laico, poiché su questo, di grazia, le leggi e l’ordinamento sono una garanzia di controllo e di correzione di eventuali iniziative “anomale”. Anche l’utilizzo delle religioni nella propaganda politica dovrebbe essere moderato e attentamente pesato. In altre parole, sottolineare a ogni piè sospinto che si agisce sulla base delle radici culturali religiose, nella fattispecie quelle cristiane cattoliche, oppure identificare come nemico (cit.) un’altra fede, nella fattispecie quella musulmana, non è una buona modalità di comunicare né nei confronti del principio di laicità, né rispetto al ruolo che si ricopre, né verso le religioni citate e tantomeno verso i rispettivi credenti (cittadini italiani o stranieri che siano) e nemmeno verso gli atei.

L’etica in politica richiede quindi un approccio che rifiuti categoricamente ogni forma di strumentalizzazione religiosa.

Gli amministratori locali dovrebbero essere guidati dal desiderio di unire e migliorare la società che governano, non di dividerla. In questo senso sarebbe un errore gravissimo trasformare la fede in uno strumento di propaganda, poiché ciò non solo minerebbe l’autenticità della pratica religiosa, ma genererebbe anche sfiducia e conflitto all’interno della comunità (e si noti che la forma ipotetica è un mero esercizio di misura di chi vi scrive).

Nello specifico, chi si professa così profondamente legato alle sue radici cristiane ben dovrebbe conoscere il messaggio di fratellanza professato da questa religione, così come dovrebbe fare suo l’insegnamento che invita a diffidare dei “falsi profeti che vengono a voi in abiti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci” poiché è “dai loro frutti che li misureremo” (Matteo, 7, 15); ovvero è dai risultati del loro agire che trarremo le conclusioni, e non certo dal loro manifestarsi pubblicamente.

Certo è che, se guardiamo alla misura, all’ordine e alla pacatezza della recente marcia degli 8.000 “tutti monfalconesi” e la confrontiamo alle azioni mirate e vessatorie e al presenzialismo intriso di declaratorie pseudo-religiose di chi ci amministra… vabbè, giudicate voi chi potrebbero essere i falsi profeti e da quali frutti del loro agire bisognerebbe giudicarli.

 

Davide Strukelj

 

 

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