Nelle varie dinamiche che vengono a generarsi all’interno di ogni competizione elettorale, c’è sempre ovviamente il disorientamento di una parte dell’elettorato che per vari motivi non riesce a decidersi tra l’una e l’altra formazione, specie se la scelta non è ideologica ma, come dovrebbe essere normale nel caso delle elezioni amministrative, legata alla stima o disistima di uno dei candidati o, meglio ancora, ai programmi e ai progetti che ciascuna compagine propone per il futuro della città.
Molte volte la tentazione è quella di votare semplicemente la coalizione uscente, che statisticamente parte ovviamente avvantaggiata: quello che ha fatto è recente, magari ancora in corso, sia che sia stato realizzato oppure solamente sapientemente annunciato, appartiene al presente mentre l’eventuale candidato all’opposizione se ha già governato appartiene al passato, il ricordo sfuma o peggio ancora se ha deluso, mentre se il candidato all’opposizione rappresenta il nuovo, il futuro sconta una inevitabile diffidenza sulle effettive capacità.
Ecco che emerge in questi momenti, la filosofia dell’“almeno”:
“Sì, non hanno fatto tutto quello che avevano promesso, ma almeno…”, “Beh, lo so che non sono stati esattamente quello che volevo ma almeno…”.
C’è questo almeno. Questo rifugio. Questa voglia di accontentarsi per non rischiare di sbagliare un pronostico come se fosse la schedina del Totocalcio. Una distratta rassegnazione, legata alla stanchezza o alla noia di informarsi, andare oltre gli annunci e cercare di capire bene quello che succede. Almeno ha fatto questo, almeno ha detto quello. Mi evita di inseguire i rischi di un sogno, la delusione di un’ambizione infranta. Una giustificazione. Ma significa rinunciare a costruire un futuro migliore.
La delusione che spesso, quasi sempre, accompagna la politica, con la sua stanca retorica ci porta verso un’apatia che fa perdere di vista uno dei valori fondamentali della democrazia che non è soltanto meramente il voto ma è la partecipazione. Infatti, quando attendiamo che si compia la liturgia delle campagne elettorali, le liste, gli slogan, i comizi, le tribune politiche, l’atteggiamento usuale è quello dell’attesa, come fosse il festival di Sanremo, e si sta lì in attesa di votare, ascoltando e guardando ma senza partecipazione.
La cosa che si potrebbe invece fare è partecipare, andare nelle sedi dei partiti, delle associazioni, delle coalizioni e dire la nostra opinione, spronare i candidati, capire i loro progetti senza il filtro dei social o delle opinioni dei giornalisti o addirittura, perché no, candidarsi. Partecipare per votare in modo consapevole ed informato.
È così importante? Bene, sino a pochi anni fa, qui a Monfalcone direi una decina di anni fa, un elettore poteva pensare di compiere l’azzardo di votare per un candidato sindaco anche di un profilo ideologico diverso dal proprio, perché si trattava di elezioni meramente amministrative, che avevano il compito di regalare alla Città un’amministrazione per certi versi in qualche modo più affine a un’amministrazione di condominio che al Parlamento di Roma, se mi passate l’ardita metafora, e quindi si puntava alla persona, alle sue capacità di mediare tra i vari bisogni della città, di circondarsi di collaboratori validi, di formare una squadra in grado di governare la città e farla crescere. Poi le cose sono cambiate e la politica, nella sua forma maggiormente ideologica, parziale e intransigente, è entrata di prepotenza in questo spazio, cambiando d’un tratto lo scenario e virando a una interpretazione ideologica del mandato elettivo, compiendo scelte che riguardano solo una parte dei cittadini mentre ne esclude altri, cercando di imporre la propria visione come l’unica e contrabbandarla come condivisa da tutti i cittadini. E c’è una narrazione impostata voluta, gestita da professionisti della comunicazione, che mira al disorientamento, alla confusione, di modo che nella nebbia di una informazione caotica e di difficile lettura alla fine l’elettore decida semplicemente di affidarsi a un candidato e votarlo senza interrogarsi più sui programmi e sui progetti ma solo accordando la sua fiducia al candidato che si presenta meglio.
Però, nella società dei media, della comunicazione globale, della pubblicità in ogni secondo della nostra vita, chi si presenta meglio tante volte ha solamente costruito meglio la propria immagine, perciò in questo modo è possibile che si vada a dare il proprio voto alla persona che è capace di generare il messaggio più stupefacente.
Guardiamo per esempio agli Stati Uniti: le campagne elettorali vengono combattute a suon di centinaia di milioni di dollari e se un candidato non è miliardario è meglio che se ne stia a casa da subito. Perché? Perché per l’appunto una macchina organizzativa grossa (e costosa) è in grado di generare veri e propri fuochi d’artificio per i propri messaggi, e si finisce per eleggere il Presidente in modo molto simile a quello che si usa per scegliere un’altra marca di detersivo.
Tutto si basa sulla narrazione, argomento che bisognerebbe approfondire meglio. Magari in un prossimo intervento.
Massimo Bulli