Ognuno ama a modo suo, anche se in questo mondo la libertà di amare è spesso condizionata da chi dall’alto del proprio trono vuole imporre dogmi e unilateralità. L’amore è un sentimento che non può essere etichettato, inquadrato, circoscritto, è emozionale e a volte anche razionale, il classico mitologico scontro tra dionisiaco e apollineo che anche a Monfalcone ha avuto il suo essere e divenire.
L’amore per una città però non è solo una questione di estetica. Certo, Jane Jacobs ha scritto che le strade e i marciapiedi costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali. Specificando che “quando si pensa ad una città, la prima cosa che viene alla mente sono le sue strade: secondo che esse appaiano interessanti o insignificanti, anche la città appare tale”. Giusto. Ma è anche vero, come ha detto Italo Calvino, che “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”.
A Monfalcone in questo decennio ha prevalso certamente l’amore per il materialismo, l’amore per l’estetica: i fiori, le piazze rifatte, le spiagge rinnovate, le nuove fontane. Nulla da eccepire.
Ma il deserto a cui si oppone questo amore ha plasmato la Monfalcone di oggi e sta definendo la città che verrà da cui non si può più tornar indietro e fuggire.
Questo amore che non ha saputo includere una componente della città ha provocato una discesa in campo di migliaia di stranieri per dire basta alle discriminazioni e rivendicare un sito dove poter pregare, cosa mai vista nella storia monfalconese, e ha alzato un muro che divide in due Monfalcone. Questo dualismo è evidente confrontando via Sant’Ambrogio e corso del Popolo. La via storica ha letteralmente perso la sua identità del primo Novecento, tra icone ridicole – come quella di D’Annunzio, espressione banale e superficiale della rivendicazione dell’italianità in una via che deve il suo fascino storico al passato veneziano e austroungarico – e un concentrato di attività multietniche senza alcuna varietà. Il corso invece, tra statue e installazioni artistiche, prova a illudere il popolo dell’esistenza di una forma di opposizione all’estinzione del commercio storico e tradizionale monfalconese, la cui causa principale è da imputarsi all’assedio di centri commerciali e al commercio online, non sicuramente all’onda islamica, che ha conquistato il centro cittadino e non solo le periferie come avviene comunemente nei processi immigratori.
Il futuro di Monfalcone non può che essere questo. I dati sono risaputi. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dal Bangladesh con il 55% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Romania (15%) e dalla Macedonia del Nord (4,5%). Gli stranieri residenti a Monfalcone al 1° gennaio 2024 sono 9.581, il 31,9% della popolazione residente; oltre 5 mila sono bengalesi. Come è noto, secondo le previsioni di Eurostat la popolazione dell’Unione Europea è destinata a diminuire nei prossimi decenni a causa del fenomeno dell’invecchiamento e senza gli stranieri l’Italia subirebbe il crollo maggiore della popolazione da qui al 2100.
In questo scenario Monfalcone sarebbe in controtendenza. Secondo le previsioni dell’Istat la città potrebbe avere 36 mila abitanti nel 2043, superando Gorizia che invece si attesterebbe sui 32 mila abitanti. Una previsione del genere deve fare i conti anche con le esigenze abitative, cui non si riuscirebbe oggi a dare risposta. Inoltre una crescita del genere significherebbe che in città la componente straniera sarà non solo la metà della popolazione, ma in alcune fasce di età si consoliderebbe come l’assoluta maggioranza.
Nessuno ha la formula magica per risolvere questa complicatissima situazione; l’unica certezza è che l’amore per la città non può più limitarsi solo all’estetica o a guardare solo a quella parte che nei prossimi vent’anni è destinata a diventare la minoranza a Monfalcone, ma deve saper includere tutte le sue componenti. L’esclusione porta all’emarginazione e l’emarginazione porta alla violenza, al degrado, ai ghetti, all’invivibilità, all’intolleranza e le basi oggi ci sono tutte.
Marco Barone