Monfalcone è una città Fincantieri-dipendente che ha come conseguenze lo sfruttamento dei lavoratori, il mancato riconoscimento salariale, il mancato rispetto di diritti come gli spogliatoi, i costi sociali scaricati sul territorio e rapporti di forza impari nello scontro di classe.
Da alcuni anni la grande industria detta la condotta alla politica locale, applicando la linea del Governo Meloni: “non disturbare chi produce”. A livello locale ciò si è tradotto nelle giravolte a vuoto sulla centrale A2a, nei silenzi sui 670 tecnici Fincantieri, sui 2700 posti spogliatoio che dovevano essere consegnati a settembre 2021, sui soldi dei risarcimenti regalati ai responsabili delle morti per amianto, arrivando allo stravolgimento della responsabilità dell’azienda sulle morti indicandola nel materiale, il tutto scolpito nel marmo.
La prepotenza verbale urlata è un modo per mascherare la mancanza di rispetto dei ruoli, l’impotenza contrattuale, la debolezza politica. Un isolamento scaricato sulla città, che paga.
Mettere in discussione il sistema produttivo che ha trasformato l’azienda da “codina” delle partecipazioni statali a leader nel mondo, dimostra una povertà culturale spaventosa. Altro è mettere in piedi il contrasto per bloccare la spremitura degli incentivi pubblici, dei lavoratori, della città, dell’appalto, solo per i loro interessi, ma questo si guarda bene di non farlo.
Siamo al paradosso, quello dell’utilizzo del lavoro per sconfiggere i lavoratori, un obbiettivo raggiunto. Le conseguenze si sono riversate aumentando le crisi dei partiti, delle istituzioni, dei sindacati che li rappresentavano, ognuno nel proprio ruolo. La ricetta adottata, quella di salvarsi individualmente è stata fallimentare, ha aumentato le distanze, le divisioni, la debolezza. Più grave di questo è solo il giudizio critico dei lavoratori che ha portato alla sfiducia, alla ritirata della partecipazione. Un’assurda spirale, dove chi produce capitale non partecipa al tavolo dove viene redistribuita la ricchezza da loro prodotta.
Nei giorni scorsi l’azienda ha acquisito quattro navi assicurando un carico di lavoro importante che copre oltre dieci anni, conferma la solidità dell’industria leader mondiale nella croceristica.
A livello locale molto è cambiato: quando veniva acquisita una nave si faceva festa, oggi c’è silenzio, imbarazzo, è quasi un subire a testa bassa, che nasconde l’assenza di partecipazione nel processo in atto, un’impotenza di contrattazione.
Investire sul capitale umano, sui Maestri del mare è centrale per la produzione e la qualità del prodotto come garanzia di continuità. Investire sulle persone, lavoratori, artisti vuol dire riconoscerli, quindi farli tornare al centro. Ma con quale ruolo e a quali condizioni? Su di Loro va accesa la luce, vanno conosciuti e ascoltati, va rivendicato che anche Loro hanno il diritto di vivere con dignità pari alla qualità del prodotto che fanno, questa è civiltà.
Certo, il lavoro porta una serie di tematiche che vanno governate con il coinvolgimento dei diversi soggetti interessati seguendo lo spirito di rispetto, di squadra che è normale sul posto di lavoro, sconfiggendo le squallide strumentalizzazioni che tanto danno hanno fatto, impoverendo e indebolendo la città.
Il carico di lavoro diventi “punto di appoggio” e la costruzione di una vertenza sociale diventi “leva” per far rinascere in modo duraturo la città e il territorio.
I lavoratori sono la garanzia di continuità, nel loro ascolto, nella partecipazione si trova la medicina giusta per la cura e la guarigione delle forze democratiche.
Luigino Francovig