Partendo dal presupposto che non c’è democrazia se non vi è partecipazione, credendo sia possibile anche oggi esercitare consapevolmente il diritto di voto in vista delle prossime elezioni, e considerando il periodo di grande cambiamento in cui viviamo, il circolo ACLI di Gradisca d’Isonzo, con l’appoggio del gruppo di MRC e AC locali, ha deciso di organizzare un ciclo di quattro incontri per non arrivare impreparati all’appuntamento elettorale.Le domande di partenza sono state: i cittadini sono in grado di riconoscere la realtà? Possiamo fidarci dei politici? Quali sono i margini di manovra dei sindaci, al di là dei programmi elettorali? È possibile un welfare che risolva veramente i problemi concreti?
L’affermazione espressa nel titolo è stata il punto di partenza per ripensare al senso della partecipazione democratica dei cittadini oggi, infatti in molti si chiedono se valga ancora la pena di votare, da un lato perché le visioni del mondo si sono affievolite rispetto al recente passato, risultando più difficile distinguere le differenze tra gli orientamenti in riferimento alla soluzione di problemi, dall’altro perché effettivamente la partecipazione politica è diminuita, le persone non sono più abituate ad approfondire nel confronto reciproco le tematiche concrete, mancando i luoghi della formazione politica, che avviene per lo più ormai sui social media.
I temi delle serate hanno riguardato il modo con cui si crea il consenso e come funziona il consenso nei primi due incontri, nei due successivi vi è stata dapprima la testimonianza di due ex-sindaci sulla loro esperienza di amministratori, e quelle di una assessora al welfare di un piccolo paese friulano e di un rappresentante del terzo settore, un prete responsabile di un centro culturale e di accoglienza per migranti (centro Balducci, vicino Udine), per parlare della politica in senso ampio, cioè come affrontare ed uscire insieme dai problemi.
Durante i primi due incontri i relatori, tra cui il direttore scientifico di IPSOS, un ricercatore di filosofia politica, alcuni docenti universitari di scienze politiche, hanno guidato il pubblico a prendere coscienza dei meccanismi della propaganda politica del nostro tempo, condizionati com’è ovvio dalla presenza ingombrante dei social media. Si è scoperto così che nostro malgrado la percezione è ciò che determina la realtà, perché inevitabilmente valutiamo i fatti in base alle nostre emozioni; inoltre, mentre fino a vent’anni fa l’immaginario collettivo era costruito dall’alto a partire dai media (giornali, tv…) arrivando fino al passaparola (top-down), negli ultimi anni invece sempre più i molteplici ecosistemi narrativi vengono costruiti dal basso, da tutti noi, grazie ai social (bottom-up). La narrazione politica, inoltre, ha preso dal marketing il sistema di pensiero definito “story telling”, in base a cui la realtà certamente esiste, ma non conta veramente: contano le percezioni, per cui la pancia è sempre più forte della nostra razionalità! Tutto questo purtroppo non ha favorito l’approfondimento delle tematiche, nè l’orientamento consapevole delle persone rispetto alle visioni del mondo, mentre si sono incrementati l’immaginario da bar, l’irrazionalità e la polarizzazione del confronto
La comunicazione politica, dunque, negli ultimi decenni ha subito una trasformazione: se un tempo l’opinione pubblica si formava sulla propagazione di ideologie, ovvero principi, valori, idee provenienti da testi fondativi (filosofia, scienze politiche, teologia…), le cosiddette autorità interpretative, consolidando i significati sulla base di discussioni e confronto, oggi invece l’opinione pubblica si fonda su quanto trova nello spazio dei social media, che però tende a confermare prevalentemente le opinioni personali (eco-chambers), dato che per una sorta di pigrizia mentale le persone cercano solo ciò che piace e non quello che le mette in discussione.
Si è parlato anche di come si sono articolati dal dopoguerra fino ad oggi i principali modi di pensare collettivi, che rispondono a meccanismi identitari: se durante la Guerra fredda prevalse inizialmente in politica estera una cultura conservatrice, dal ’68 in poi, e ancor più dall’89 (caduta del muro di Berlino), prese piede in Occidente un nuovo ordine mondiale basato su una ventata di libertà e di ottimismo. Venivano dunque promosse Pace e Democrazia, e si disinnescavano i conflitti latenti o conclamati con proposte basate sull’idea del multiculturalismo o del federalismo, cioè dell’integrazione simmetrica (stati multinazionali, vedi in Iraq, curdi e sciiti, o nei Balcani, bosniaci, croati e serbi…); i leader occidentali (Kissinger, Clinton) erano capaci di scelte e proposte basate su un pensiero illuminato e sulla conoscenza approfondita delle situazioni e delle persone/culture locali, senza presumere mai di avere per soluzione la panacea per tutti i mali. Il sistema politico cosiddetto occidentale è però scivolato via via in un orientamento ideologico basato sul politically correct, che da un lato, meritoriamente, voleva rifuggire ciò che svantaggiava categorie di persone all’interno delle società (minoranze di varia natura) o nazioni più deboli, ma dall’altro per non danneggiare la parte ritenuta più fragile non permetteva l’assunzione di scelte coraggiose per il bene di tutti. Così anche oggi si osserva che le politiche sia interne, sia esterne possono risultare spesso “bloccate”, poco coraggiose, efficaci e determinanti, addirittura inconcludenti o poco risolutive, a fronte paradossalmente di una comunicazione politica polarizzata, talvolta aggressiva e muscolare (Trump). L’alterata percezione della realtà, per cui proviamo paure immotivate rispetto ai rischi concreti del nostro mondo, amplificate dalla comunicazione social, aumenta il clima di incertezza in assenza di autorità interpretative riconosciute che dicano cosa sia giusto e cosa no. Questo si accompagna ad un clima di sfiducia nelle istituzioni democratiche che ci rappresentano, aumentando il senso di impotenza dei cittadini rispetto, ad esempio, alle guerre che ormai sono ritornate alla ribalta nel nostro mondo, facendo propendere in modo semplicistico per soluzioni di tipo bellico piuttosto che diplomatiche, richiedendo quest’ultime un lavoro paziente di conoscenza delle parti e di cucitura delle divergenze, a cui non si è più abituati.
Tuttavia, le testimonianze delle ultime due serate ci hanno risollevato gli animi, facendo emergere la bellezza del fare politica, anche oggi, perché si può sempre partecipare attivamente alla vita della nostra città (regione, nazione, …), anche sfruttando le nuove tecnologie, se usate in modo consapevole e onesto. La disattenzione alla politica si combatte, a livello locale, proprio con la politica itinerante, vicina ai territori, dove è possibile entrare in relazione diretta con le persone, che cercano il sindaco, l’assessore, o il consigliere, perché si fidano di lui, e su di lui sanno di poter contare, e questo è anche molto gratificante. L’amministrazione comunale non è un’élite separata, che cala le decisioni dall’alto, ma deve informare i cittadini con regolarità sulle decisioni prese, andando sul territorio a spiegare di persona le ragioni delle scelte, e questo attira molto i giovani. Rispetto a questi ultimi sappiamo che mancano figure di riferimento, e l’avvento ingombrante dei social, con la sua comunicazione semplificata, e con la perdita di legittimità delle assemblee legislative, ha allontanato le nuove generazioni, togliendo il gusto della partecipazione, ma a livello locale si può fare molto coinvolgendoli direttamente nelle scelte che li riguardano. Anche a livello di giunta regionale i consiglieri sono spesso frustrati perché le decisioni sono per lo più nelle mani della giunta, che si priva della varietà del contributo anche creativo dei consiglieri di maggioranza e opposizione. A livello locale, ma anche ai livelli più alti, l’azione di una coalizione ha come fondamento la Cultura, cioè una visione del mondo condivisa; essa fonda l’economia, la scuola, il welfare, ma convive con altre visioni dell’uomo e del mondo, per cui è importante il dialogo nella diversità per rispondere bene ai problemi, coinvolgendo l’opposizione e non contrapponendosi per partito preso. L’esperienza del Covid ha insegnato la necessità di lavorare in comunità, secondo una visione che guarda OLTRE all’esistente, che IMMAGINA come si vorrebbero fare le cose, che si INFORMA sui temi, e che ASCOLTA e COINVOLGE tutti. Fare il sindaco, soprattutto in un piccolo comune, richiede passione, entusiasmo, creatività, capacità di ascolto e di coinvolgimento, ma soprattutto senso di responsabilità: il sindaco non può dimenticarsi del bene comune dall’alba al tramonto!
Il fare politica proprio del volontariato, infine, parte dalla bellezza del partecipare, che dà senso alla vita, e che comporta di non vivere rivolti al proprio ombelico, ma di rispondere alla vita che ti chiede: DA CHE PARTE STAI? Il volontario ascolta costantemente gli altri, e vive la solidarietà con il cuore spezzato come la persona che ti chiede aiuto: questo cambia tutto, e senza questo non esiste il prendersi cura dell’altro. Questa mentalità è stata quella del fondatore del centro di accoglienza Balducci, don Pierluigi Di Piazza, e lo è anche del responsabile attuale, don Paolo Iannacone, come di tutti i volontari che ne sostengono le attività culturali e di integrazione; queste persone hanno saputo ASCOLTARE, GUARDARE OLTRE e VALORIZZARE L’ASPETTO CULTURALE di coloro che venivano accolti, coinvolgendo anche altri enti dell’amministrazione pubblica, per il necessario sostegno.
I valori espressi da relatori e testimoni nelle quattro serate portano a concludere che anche oggi la democrazia è viva quando le persone possono partecipare, quando si sentono a casa nel luogo, o nazione in cui vivono, perché sono accolti e accolgono, sono ascoltati e ascoltano, non vivono da omologati, ma interagendo con gli altri nella diversità. Il tema è: COME VIVIAMO LA COMUNITA’ UMANA? L’articolo 1 della Costituzione italiana dice in sostanza che ciascuno con la propria azione costruisce la repubblica, e così è pienamente cittadino, mettendosi a disposizione per quello che può. E’, allora, forse necessario assumere l’etica del viandante, sentirsi in cammino, ed esserlo assieme agli altri che camminano, senza occupare spazi che non sono nostri, perché nessuno è padrone di niente, ed abbattere le barriere fisiche e mentali per affrontare insieme i problemi del nostro mondo.
Marta Cervo