27 gennaio, Giorno della Memoria, l’orrore che non sembra del tutto scomparso

 

Oggi è il 27 gennaio, Giorno della Memoria. È una ricorrenza internazionale, celebrata ogni anno per commemorare le vittime della Shoah, che è stata scelta perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, scoprendo quello che sappiamo in ordine alla macchina dello sterminio nazista.

Mai sino ad ora, da quel giorno, questa giornata è così importante perché mai, da allora, ci siamo trovati così lontani dal ricordo, dalla spaventosa memoria di quelle stragi scellerate. In tutta Europa, se non in tutto il mondo, assistiamo al grande ritorno della destra, di quella destra che di questo Olocausto fu la causa e l’inizio. Dei razzismi, delle intolleranze. Di un dilagante cinismo opportunista e becero. Di una rinnovata voglia di violenza.

Tutto questo sembra essere lontano, in apparenza, dall’arrivare agli estremi ai quali arrivò il nazismo e che conosciamo per averlo studiato sui libri di storia, o abbiamo comunque appreso perché ormai è (o dovrebbe essere) patrimonio comune. Ma forse lo è solo in parte.

Da poco ho finito di leggere un libro fondamentale per comprendere appieno la tragedia dell’Olocausto, “La Banalità del male” di Hannah Arendt, giornalista americana che seguì a Gerusalemme per il New Yorker il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, che dell’Olocausto fu uno dei principali esecutori. Libro che, per certi aspetti, è di un’attualità agghiacciante.

Attraverso gli atti del processo che si sarebbe poi concluso con l’impiccagione dell’imputato, vi si delinea con chiarezza il quadro dell’architettura della spaventosa macchina nazista per l’eliminazione degli ebrei. Una macchina innanzitutto burocratica, in cui ognuno era un ingranaggio, che aveva una funzione limitata e che poco sapeva dell’intero apparato o, meglio, aveva la possibilità di ignorare (e questa sarebbe poi stata la linea difensiva di Eichmann) il quadro d’insieme. Una macchina fondata sulla propaganda che si preoccupò innanzitutto di privare gli ebrei di ogni connotazione umana per relegarli al ruolo di problema sociale.

Sulla falsariga di quanto avrebbe detto anni dopo Noam Chomsky in contesti simili, i principi che regolavano questo “pensiero unico” non venivano tanto enunciati, quanto considerarti parte integrante di un discorso più complesso che riguardava la grandezza della Germania, un dettaglio da superare per arrivare ad altri obiettivi. In questo modo il popolo si abituò presto a dare per scontato che gli ebrei dovevano sparire. E questo contando su un apparato che si muoveva in modo ordinato, eliminando ogni termine che potesse ricordare una persecuzione. Le deportazioni degli ebrei venivano per esempio definite “trasferimenti di residenza”, le stragi “soluzione finale” o “soluzione radicale”. Tutto perfetto, tutto regolare. Cosa che permetteva al popolo tedesco di decidere di ignorare la realtà delle cose. E le persone che si occupavano di questo erano distribuite in una miriade di uffici variamente collegati, con gerarchie incrociate e confuse che avrebbe poi reso difficilissimo stabilire le responsabilità di ciascuno di essi. Il tutto inquadrato in precise leggi che resero possibile privare di ogni diritto gli ebrei, anche se erano cittadini tedeschi, spogliarli delle loro proprietà, creare i presupposti per poterli espellere dalla Germania, fatto salvo che non esistevano nazioni che fossero in grado o comunque fossero motivate ad accogliere un esodo così imponente. E infine di poter eliminare, per “motivi sanitari”, persone che vivevano legalmente in Germania o nelle nazioni annesse al Reich, e che improvvisamente divenivano illegali e quindi invise alla popolazione “ariana”, indesiderabili e quindi eliminabili. In modo legale, preciso, burocraticamente esatto. Quasi banale. Uccisi dall’indifferenza prima ancora che dalle camere a gas, un’indifferenza indotta con la propaganda.

Privare queste persone di un’identità, dare loro una definizione svilente, spostarli poi come oggetti da una parte all’altra del Paese sino a farli sparire in modo anonimo, senza troppa pubblicità. Il tutto gestito da burocrati che eseguivano ordini e disposizioni, sino all’atto finale, a sua volta gestito quasi sempre in modo anonimo ed industriale. Il protagonista, Eichmann, sino all’ultimo difese il proprio operato, definendosi un idealista al servizio dello Stato, dichiarando di avere operato nella legalità; mentre resta immortale la constatazione di Hanna Arendt di fronte a tutto quello che emerse durante il processo in ordine al clima di menzogne, verità costruite ad arte, pretese di innocenza, declinazione di responsabilità, nel quale l’Olocausto era maturato: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.»

Questo mondo purtroppo non sembra scomparso, sembra invece essere rimasto latente per molti anni e oggi sembra voler rispuntare. Abbiamo visto le dimostrazioni in Germania contro l’AfD che stava meditando un piano per deportare in Africa milioni di immigrati, anche con passaporto tedesco. E questa è solo la punta dell’iceberg di una destra sommersa che vuole riemergere, e per la quale probabilmente gli immigrati sono i nuovi ebrei, e i cui riflessi si percepiscono anche in Italia.

Massimo Bulli

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