di Marco Barone
Diverse sono le segnalazioni di casi di razzismo che interessano i cittadini “stranieri” in una Monfalcone che ha il primato regionale di cittadini di nazionalità non italiana, il 31% su circa 30 mila abitanti. Il motivo lo sappiamo tutti, il sistema Fincantieri, che dalla fine degli anni ’90 per rimanere competitivo sul mercato capitalistico ricorre a manovalanza proveniente da certe aree del nostro complesso mondo.
Stranieri o non stranieri, si tratta sempre di persone, che hanno una propria dignità, che meritano rispetto. L’integrazione non si ottiene a colpi di divieti, o fomentando situazioni di intolleranza sociale. Bisogna mettersi nei panni di chi li subisce certi comportamenti, e non è facile. Tanto per strada quanto sui social si sentono, si leggono parole che lasciano veramente mortificati, basiti, a cui non si può più restare indifferenti e che non pensavamo di dover affrontare qui, nella nostra Bisiacaria. E le vittime sono costrette ad ingoiare il rospo, in silenzio, un rospo razzista che a Monfalcone non era di casa ma si è preso spazio, sempre di più.
La città ha una storia importante, multietnica grazie ai cantieri; un tempo era orgogliosa dei suoi cantieri navali, ogni varo era un evento per la città, oggi, salvo che per una cerchia ristretta, passano in sordina e il cantiere è percepito quasi come un peso. Ma senza il grande cantiere navale, l’intera economia del mandamento monfalconese tracollerebbe.
Il problema è ciò che il vento semina nel tempo e ciò che si raccoglierà. E a Monfalcone si stanno raccogliendo tossine di intolleranza sociale verso i cittadini stranieri, bengalesi in particolar modo, come mai forse era successo nel corso della sua storia. Ho visto piangere una ragazzina bengalese perché aggredita verbalmente per il velo che le copriva il capo. Ho visto persone puntare il dito contro donne bengalesi accusandole in modo volgare di riprodursi in continuazione, ho letto sui social un commento che proponeva di creare a Marina Julia un’area riservata ai bengalesi così come esiste l’area per cani, e si può continuare.
Nella rivista della Polizia di Stato del 2020 era stato pubblicato un opuscolo importante dal titolo “Quando l’odio diventa reato”, e ci sono diversi elementi di spunto di riflessione. Si legge che “l’antidoto più potente non può essere allora che la cultura per combattere l’ignoranza di chi ha paura del diverso, di chi si chiude negli stereotipi e non sa guardare oltre. E le forze di polizia giocano un ruolo centrale nel bloccare ogni forma di intolleranza prima che degeneri in sofferenza, distruzione e morte con crimini che hanno già infamato la storia dell’umanità. Niente può essere sottovalutato, la mente deve essere sempre attenta e lucida perché il sonno della ragione genera mostri”. Questo quanto scritto dal direttore centrale della polizia criminale, presidente dell’Oscad. I crimini d’odio si connotano soprattutto per la plurioffensività; ci sono diversi livelli per tutelarsi contro questi atti di razzismo, siano questi consapevoli o inconsapevoli, che forse sono i peggiori, ricordandosi che il riferimento principale è l’art. 604 bis C.P. (ex art. 3 l. 654/75) “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”.
La storia di Monfalcone non è razzista, non è fondata sull’intolleranza sociale, non è questa la sua identità. Oggi però la città deve fare i conti con una realtà tanto triste quanto preoccupante, ma che saprà ben respingere perché ha gli anticorpi storici, a partire dal suo antifascismo. Ottant’anni fa un migliaio di antifascisti, studenti, cittadini, operai dei cantieri navali di Monfalcone, ritrovandosi a Selz di Ronchi, diedero origine alla Brigata Proletaria. Qui la Resistenza organizzata è nata prima che altrove e non si tratta di banale retorica, ma della nostra storia e quei valori esistono ancora, non sono stati superati. Da qui si deve non ripartire, ma continuare, con una resistenza etica e morale contro il dilagante razzismo.
Marco Barone